La tintura è un processo di finissaggio che permette di cambiare il colore dei tessuti: questo risultato viene ottenuto utilizzando particolari sostanze chiamate coloranti, che si legano alle fibre tessili alterandone l’aspetto.
Questo processo ha una storia molto antica: reperti archeologici di rudimentali strumenti tessili sono stati datati al Neolitico, rivelando che i nostri avi già avevano intuito le proprietà coloranti di vegetali e animali.
Dai primi esperimenti rudimentali, la tecnica si è evoluta nell’antichità, sfruttando le numerose le tinture disponibili in natura. Per fare qualche esempio: l’arancione si può ricavare dal melograno, il giallo dai pistilli dello zafferano, il porpora da particolari molluschi e il blu dai lapislazzuli. La zona geografica influenzava molto la reperibilità di queste materie e quindi i gusti estetici di una civiltà.
Pur con il susseguirsi di miglioramenti del processo e ampliamenti della gamma cromatica, la tintura dei tessuti è rimasta legata alle sostanze naturali fino alla metà del XIX secolo. Nel 1865, infatti, William Perkin sintetizzò il primo colorante artificiale, la mauveina (chiamata anche porpora di analina), e aprì la strada per l’industrializzazione del processo di tintura.
Oggi abbiamo a disposizione la tecnologia e le competenze per la colorazione di una grande varietà di tessuti: naturali vegetali e animali, artificiali e sintetici. La forza del legame, però, dipende dalla composizione chimica e dalla struttura fisica della fibra, perciò è importante scegliere il colorante più adatto per ogni caso specifico.
La caratteristica che definisce la resistenza della colorazione si chiama solidità del colore: attraverso diversi test si valuta come il legame tra fibre e coloranti reagisce a una serie di sollecitazioni, come lavaggio, sfregamento, raggi solari, sudore, sporco, … Insomma, tutte quelle condizioni a cui un tessuto andrà incontro nel suo uso quotidiano.
Sono diverse le sostanze che vengono comunemente usate nell’industria del finissaggio, non solo in virtù del risultato estetico, ma anche del grado di solidità del colore.
I coloranti acidi, per esempio, si usano soprattutto per lana, seta e fibre poliammidiche per ottenere toni molto brillanti con buona solidità alla luce e al lavaggio a umido, ma scarsa alle altre sollecitazioni. Quelli basici, invece, sono più indicati per le fibre acriliche, mentre il loro uso per fibre vegetali porta a un grado di solidità del colore inferiore.
I coloranti diretti sono chiamati così perché la tinta in soluzione acquosa aderisce direttamente al tessuto; su alcune tonalità non eccellono per brillantezza e in generale la solidità a luce, lavaggio e sudore sono relativamente basse.
I coloranti reattivi creano un legame chimico con le fibre proteiche, cellulosiche e poliammidiche, ottenendo così un’elevata solidità ai lavaggi a umido.
I coloranti al tino sono molto indicati per le fibre cellulosiche e permettono di ottenere risultati con un’elevata solidità del colore a molte sollecitazioni, mentre quelli dispersi si rivolgono alle fibre di poliestere con simili risultati.
Infine, i coloranti a pigmento usano un’emulsione con pigmenti e resine portata ad alta temperatura per polimerizzarla su tutti i tipi di fibre con alta solidità a luce e lavaggio; si possono anche ottenere effetti dorati e argentati.
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